
Può sembrare assurdo ma proprio gli spaghetti e la pizza, quelli che tutti considerano piatti tradizionali della nostra dieta, hanno una storia tutt’altro che certa, rispetto alle loro origini, alle modalità con cui sono preparati, serviti in tavola, consumati e raccontati nel mondo. Tendiamo a considerare tanto la pizza quanto gli spaghetti punti fermi del Made in Italy, segni di appartenenza alla terra di origine, ostentati spesso come tratti identitari non negoziabili, sia in patria sia tra gli emigranti italici e le comunità italiane all’estero. Più di recente sono diventati parte integrante dello stile di vita legato alla dieta mediterranea, regime alimentare dal 2010, iscritto come patrimonio culturale e immateriale nei registri dell’Unesco.
Molti cultori sobbalzeranno dalle loro sedie, scoprendo che la pasta era in origine un contorno, più simile alla preparazione che ne fanno gli stranieri (gli americani) che non ai puristi della cucina italiana. Secondo Marco Bettiol (Raccontare il Made in Italy: un nuovo legame tra cultura e manifattura, Marsilio, 2015), «il modo in cui oggi consumiamo la pasta è molto diverso rispetto a quanto facevano i nostri predecessori nel Medioevo e nel Rinascimento che, ad esempio, la utilizzavano come contorno delle portate di carne (…). La trasformazione della pasta in piatto autonomo avviene in coincidenza della grave crisi alimentare che colpì Napoli nel XVII secolo e che rese difficilmente reperibili la carne e le verdure che erano gli alimenti principali della cucina del tempo». Secondo Bettiol (confortato anche da altri studiosi come Massimo Montanari, Il cibo come cultura, Laterza, 2007), l’invenzione della pasta, come portata, è un’invenzione nata per fare fronte alla scarsità di cibo, non certo un tratto identitario che alberga nella notte dei tempi.
La tendenza a celebrare come originarie abitudini e alimentari che invece sono recenti o addirittura frutto della rivisitazione che gli emigranti ne hanno fatto nei luoghi lontani dalla madrepatria, è nota anche come “effetto pizza”. L’espressione la si deve all’antropologo Agehananda Bharati, secondo il quale la pizza si è diffusa prima negli Stati Uniti tra gli emigrati italiani e poi successivamente reintrodotta in patria, come prelibatezza della cucina italiana (L. Furfaro e R. Iervolino, L’arte della Pizza, Rogiosi 2016). Quanto l’effetto pizza possa davvero applicarsi alla pizza o ai suoi condimenti è oggetto di dibattito storiografico, ma di certo il fenomeno della rivisitazione che gli italici e i loro imitatori hanno fatto di molti alimenti della tavola italiana è sotto gli occhi di tutti.
Nasce così un vero e proprio lessico culinario che stravolge non soltanto le parole ma anche il sapore di molti alimenti italiani per eccellenza. La nostra rucola, ortaggio spesso presente tra i condimenti della pizza al filetto (in compagnia del pomodorino fresco e della mozzarella dop), diventa “arugolalarugula” negli USA. Il nostro spuntino o cibo da asporto per eccellenza, il panino, in Francia e Inghilterra è detto “panini” al singolare e “paninis” al plurale. In Giappone il salame diventa “sarami”. In Egitto la pasta, nell’arabo parlato diventa “basta”. La “veal parmigiana” è una cotoletta di vitello impanata e fritta, cosparsa di pomodoro e ricoperta di finta mozzarella. Il “freddoccino”, un cappuccino freddo (F. Chessa, C. De Giovanni, M. T. Zanola (a cura di), La terminologia dell’agroalimentare, Franco Angeli, 2015).
Tanto la pizza quanto gli spaghetti hanno il merito indiscutibile di presentarsi sia al palato più ingenuo sia all’occhio più inesperto, come portate semplici da degustare, pietanze che consentono a chiunque di riconoscere gli ingredienti utilizzati nella loro preparazione, specie nelle versioni più semplici, come lo spaghetto rosso al pomodoro (o bianco con aglio e olio extravergine di oliva) e la pizza margherita (che diventa marinara, togliendo la mozzarella e aggiungendo aglio e una spruzzatina di origano). Una semplicità di consumo, a cui non corrisponde necessariamente una facilità di preparazione, sono infatti diversi gli errori che si possono commettere cucinando un piatto di spaghetti al pomodoro, nei tempi di cottura della pasta, nel condimento del sale o nella densità del sugo, finendo per pregiudicare irrimediabilmente la portata. A meno di non comprare l’impasto dal panificio di fiducia, le possibilità di generare qualcosa di simile a una pizza si approssimano allo zero anche nell’aspetto, specie se le mani del pizzaiolo sono inesperte.
Una semplicità che evoca un mondo originario, tradizionale, agricolo, tipico della provincia non industrializzata italiana, dell’entroterra dove farine a parte, gli ingredienti sono reperibili nel campo o come si direbbe oggi a K0. Sono immagini e racconti, frutto spesso di fervida immaginazione collettiva o come direbbero i sociologi, di una rappresentazione interessata della realtà. Ecco dunque che la pasta come piatto a se stante della nostra tavola è un’invenzione, tutto sommato abbastanza recente.
E gli interessi in gioco sono davvero enormi, tanto da condizionare non poco il dibattito storiografico. Più di recente il sociologo Riccardo Giumelli ha messo il dito nella piaga, analizzando i processi di globalizzazione che influiscono sulla ridefinizione dei confini del Made in Italy (R. Giumelli, Post-Made in Italy. Nuovi significati, nuovi sfide nella società globale, edizioni altravista, 2019). Ho affrontato i nodi problematici del paradigma del Post-Made in Italy in un fortunato articolo di questo blog. Come ogni trasformazione quando è letta in anticipo suscita interesse ma anche tanti malumori, con la paura di vedere il nostro marchio Made in Italy bistrattato dalle imitazioni e dalle rivisitazioni. Il testo di Giumelli, oltre che scientifico, offre scenari rassicuranti di business sulle opportunità di valorizzazione della comunità degli italici nel mondo. 250 milioni di persone che non aspettano altro che diventare brand ambassador del marchio più ricercato al mondo.